Crac Dimafin, a giudizio l'ex Dg Tercas Di Matteo. Stralciata la posizione di Nisii

TERAMO – Ci sarà un maxiprocesso a Roma, per il fallimento (pari a circa 450 milioni di euro) di una dozzina di società, che facevano parte della holding Dimafin riconducibile al costruttore molisano Raffaele Di Mario, finito in manette nel 2011. Sul banco degli imputati compariranno 33 imputati e tra questi l’ex direttore generale della Tercas, Antonio Di Matteo. Non ci sarà l’ex presidente, Lino Nisii, la cui posizione è stata stralciata dal giudice per le udienze preliminari del tribunale di Roma, Bernadette Nicotra, che ha deciso i rinvii a giudizio.

Questi riguardano lo stesso Di Mario, alcuni suoi stretti collaboratori, amministratori di singole società e prestanome, e dirigenti di istituti di credito come Unicredit Corporate Banking, Italease e Tercas, per reati che a vario titolo vanno dalla bancarotta fraudolenta per distrazione e preferenziale a una serie di reati fiscali. La vicenda riguarda, in particolare, il crac, certificato dal tribunale di Roma tra il 2011 e il 2012, di Dimafin spa e di un’altra decina di società della holding immobiliare.

Nell’udienza fissata al 30 maggio prossimo davanti alla nona sezione penale del tribunale, comparirà dunque anche Antonio Di Matteo, già sotto processo per associazione per delinquere aggravata dalla transnazionalità,
ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, appropriazione indebita e riciclaggio. Secondo la Procura di Roma, dal 2005 al 2011, approfittando della sua posizione di vertice nell’istituto di credito teramano, Di Matteo avrebbe utilizzato il patrimonio e le potenzialità finanziarie della Tercas ad esclusivo vantaggio proprio e di alcuni imprenditori amici. E Di Mario, per aver fatto parte di quest’ultimo gruppo, avrebbe ottenuto "ingenti finanziamenti con modalità non rispettose dei protocolli istruttori adottati
dalla Banca nei confronti di tutti gli altri clienti e che, all’esito del commissariamento, sono stati qualificati tutti
come crediti di difficile recupero (ovvero ‘ad incaglio e/o sofferenza’) per un importo complessivo di 200 milioni di euro».