Addio Presidente, da oggi orfani di un gigante del dare e del fare L'ULTIMA INTERVISTA

TERAMO – (robertoalmonti) Non è retorico affermare, nel giorno in cui Giandomenico Di Sante ci ha lasciati, che siamo più soli. E non lo è anche sostenere che se n’è andata una brava persona. Quando di mezzo c’è la politica, quando si parla di un amministratore o di chiunque abbia un ruolo attivo e visibile nella vita pubblica, è difficile trovare, anche alla fine, unanimità di giudizio. Con Di Sante non è così. ""
E’ larghissima l’eco della commozione per la sua scomparsa e il carattere ‘social’ della nostra comunità lo ha confermato: il coro è concorde, ha dispensato disponibilità, sforzi e impegno nel migliorare la vita di questo territorio e del suo Abruzzo. Prendete San Nicolò: dalla notizia dell’aggravamento, a quella del ricovero e poi della morte del ‘Presidente’, la più popolosa frazione di Teramo dove i Di Sante hanno impiantato le loro attività artigianali prima, commerciali e industriali poi, si è chiusa nel dolore. Il lutto non è di donna Margherita, la moglie del presidente, o di Attilio, Tiziana e Marcello, i figli. Il lutto è di tutti, come fosse venuto a mancare un famigliare. Perchè Di Sante ha trattato tutti come in una grande famiglia. Quel suo ufficio al primo piano del mobilificio, che si affaccia sul bar e sul distributore di benzina, è stato mèta di migliaia di persone, giovani, meno giovani, padri di famiglia, neo laureati e operai, dirigenti di azienda, sindaci, consiglieri comunali e assessori, impiegati della banca e dirigenti. Nessuno andava via a mani vuote: lui aveva sempre un pensiero per tutti, oltre all’affettuosa stretta di mano, quando la destra smetteva di sfregarsi con la sinistra, e l’indice si alzava per accompagnare un ricordo famigliare o un aneddoto. Citava sempre il nonno Giandomenico e il padre Attilio. Soprattutto perchè lo avevano buttato dentro la bottega a lavorare a 14 anni, nella falegnameria di famiglia che ha dato origine all’industria del mobile che è oggi. Quell’umiltà imparata in falegnameria ne ha fatto un uomo che ha saputo distribuire consigli, essere sempre pronto per una risposta o prendere un appunto: e potevi stare certo che non lo metteva da parte, ti avrebbe cercato per farti sapere cosa era stato possibile fare, per questo o per quello. Era un infaticabile Giandomenico Di Sante e non a caso andava fiero, tra i tanti titoli ricevuti in 60 anni di vita pubblica, di quello di Cavaliere del Lavoro. Qualcuno, provando a trovarne un difetto, lo definì "il presidente di professione", ma quanto importante fu, nel sistema bancario italiano, la sua esperienza e quella caparbia determinazione nel guidare la sua Popolare verso un solido futuro che sì, le ha tolto piano piano l’identità localistica, ma ne ha garantito la sopravvivenza con annessi e connessi. Guardava sempre oltre, Giandomenico, era avanti in molte cose. Nella banca, come nella politica, come nella vita di tutti i giorni. Ha incrociato e si è seduto con i grandi dell’economia italiana, ha accompagnato con i suoi consigli generazioni di amministratori, ha ‘eletto’ – come si suol dire – rappresentanti del territorio, di centrodestra e di centrosinistra in ogni consesso. E ha chiuso alla grande lo stare su questa terra, abbracciando papa Francesco in Vaticano: perchè l’umiltà lo ha reso un gigante anche di fronte al Buon Dio, come lo chiamava spesso. A me piace ricordarlo con l’ultima intervista che mi ha dato, nel novembre di due anni fa, prima che la malattia lo aggredisse senza dargli scampo. Io da oggi, teramano, mi sento più solo, e credo lo siate anche tutti voi.

GUARDA L’INTERVISTA A DI SANTE (da Inside del 6 novembre 2014)